Corsi di formazione per aziende e organizzazioni

CORSO DI FORMAZIONE AZIENDALE

Lo sguardo e la relazione”.

La fotografia come metafora

di Ico Gasparri ©

  1. 1. Lo sguardo: la fotografia prima della fotografia.

Scopo di questo corso è quello di utilizzare la fotografia come metafora narrativa, introspettiva, relazionale, confrontandosi all’interno di un gruppo su un pensiero che vada ben al di là dei tecnicismi attuali o tradizionali, aiutando i partecipanti a sviluppare le proprie doti di osservazione, di sguardo “calmo”, di esplorazione del mondo esterno, di interpretazione, maneggiando gli stessi ingredienti del racconto d’autore, ma plasmandoli sotto la guida del tutor in maniera autonoma, innovativa e spesso imprevedibile, appoggiandosi unicamente sulla riflessione interiore e sullo sguardo autonomo.

Lo sguardo, quindi, come primo catalizzatore di riflessione innovativa, ma anche come strumento per strutturare l’organizzazione del proprio mondo relazionale in vista del perseguimento di nuovi “quadri”, scene, figure, emozioni e, in questo specifico campo di applicazione, di nuove relazioni di gruppo.

La traduzione del pensiero nato dallo sguardo individuale – ma anche dal confronto con il gruppo – e dei conseguenti flussi narrativi in una nuova immagine fotografica richiederà ovviamente una corretta applicazione tecnico-pratica. La tecnica fotografica sarà pertanto trattata e approfondita, adattandola alla composizione del gruppo, ma il vero interesse sarà quello di utilizzarla al meglio per dare materia alla nostra riflessione, anche se si dovrà ricorrere ai suggerimenti del tutor per superare momenti di difficoltà applicativa.

Attività: In questo quadro teorico, è evidente che il vero protagonista è lo sguardo. Occorrerà quindi iniziare studiando il primo colpo d’occhio di una scena che ci si presenta perché la sorpresa che essa provoca in noi va memorizzata e recuperata nella fase successiva di creazione e racconto, anche al fine di sorprendere lo spettatore. Una volta individuato il teatro della possibile scena, impareremo a girare intorno al soggetto, a guardarlo da varie angolazioni, per scoprire i lati migliori e quelli meglio illuminati \\ Provare ad “ascoltare” il soggetto studiandolo nel suo contesto \\ Per potenziare queste attitudini è importante essere sempre mentalmente attivi come se stessimo fotografando anche quando non abbiamo la macchina con noi.

  1. 2. Interpretare la fotografia con il nostro corpo.

Inserirsi nella scena e prendere fisicamente parte ad essa: il nostro corpo deve esprimere questa appartenenza/identificazione. La postura del fotografo non deve mai essere casuale. Deve essere comoda, in equilibrio, deve innanzitutto esprimere il nostro benessere e il nostro migliore stato d’animo in rapporto alla ripresa. Questo non vuol dire che uno scatto non possa esprimere sofferenza ma anche in questo caso la nostra potenza espressiva dovrà essere di equilibrio o in un bilico accettabile per “lanciare” lo scatto. Piedi ben piantati al suolo, apparecchio impugnato nella maniera corretta, respirazione sotto controllo. Sì, la respirazione può essere importante per scattare una buona foto. L’intero nostro organismo deve prendere parte all’azione e questo non ci deve sembrare un’eccessiva enfatizzazione attribuita all’atto fotografico, ma una delle pratiche necessarie per fare della nostra passione una risorsa emotiva e artistica veramente importante.

Attività: Esercizi di complanarietà tra le spalle e una parete individuata come scena \\ Prova di equilibrio e di postura sui piedi con e senza la macchina, diritti e accosciati \\ Respirazione per lo scatto \\ Studio dei possibili punti di osservazione della scena \\ La mano ferma e il soggetto in movimento: due aspetti della velocità di scatto.

  1. 3. La scelta dell’apparecchiatura.

La scelta dell’apparecchiatura (dalla macchina alle ottiche, dalla borsa agli accessori) non è e non deve essere terreno di casualità. La macchina che stiamo stringendo fra le mani deve parlare di noi perché il suo funzionamento non è indifferente: funzionare in un modo o in un altro significa rispondere in maniere diverse alle nostre pulsioni, alla nostra concentrazione.

Riflessioni personali. Dirò subito che, dal punto di vista della disciplina espressiva come autore, ma anche come docente, sono piuttosto preoccupato, per non usare l’espressione più marcata “contrario”, rispetto all’affermazione globale della tecnologia digitale applicata alla ripresa delle immagini, mentre ammetto che lo sono molto meno per la stampa digitale delle stesse, pur non rinunciando alla stampa tradizionale. Questa perplessità non nasce da motivi nostalgici o aprioristici, ma dal mio interesse nei confronti del processo di creazione mentale della foto e dalla constatazione che questo possa essere pesantemente compromesso dal recente uso massiccio della fotografia digitale, specialmente da parte dei giovani che cominciano appunto a fotografare con un apparecchio digitale. Una macchina digitale con i suoi “rumori” tecnologici e combinazioni matematiche sottrae concentrazione, ci sottrae una parte delle attività che dovremmo svolgere noi: ci ruba attenzione. Molti mi raccontano che con una macchina digitale davanti al naso il flusso di energie che passa dalla loro testa e dal loro cuore al soggetto attraverso l’obiettivo appare interrotto, deviato. Quando, invece, ritornano ad impugnare la vecchia machina analogica questo canale sembra riaprirsi e il pensiero tornare a fluire in quel meraviglioso silenzio in cui siamo a diretto contatto con il soggetto. Ho provato personalmente questa sensazione e la posso confermare.

La lunga, noiosa e spesso interessata discussione tra i sostenitori delle nuove tecnologie digitali applicate alla fotografia e gli irriducibili amanti della tradizione di ripresa legata alla pellicola è, tuttavia, poco interessante. Quello che qui ci interessa apprezzare e condividere è, come anticipato sopra, lo sguardo, l’idea che sta prima della fotografia. Quello che, al limite, siamo tenuti a sapere in termini di scelta del sistema fotografico che adotteremo è che cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso scegliendo l’uno o l’altro dei due possibili scenari pellicola/digitale.

3.1 Problema del “quanto costa?”

La convinzione attualmente consolidata secondo cui è meglio scattare foto digitali perché ciò costa meno o addirittura zero ha senza dubbio un fondamento oggettivo ­– quanto parziale – di verità.

Tuttavia, questa convinzione tende a lasciare in ombra un’immediata conseguenza logica e cioè che se le migliaia di foto digitali da noi scattate non costano nulla allora, in qualche modo, stiamo dicendo anche che esse non valgono nulla, specialmente in quest’epoca che sempre di più ha legato il valore degli oggetti al loro costo di mercato: il valore reale non corrisponde più al valore effettivo ma al costo che ad esso viene applicato; spesso infatti si parla di “valore percepito” e questo può essere utile in questo ragionamento. Si potrebbe obiettare che ognuna di quelle foto “gratuite” potrebbe essere un capolavoro e valere migliaia di euro in termini di mercato dell’arte, ma sappiamo che per la quasi totalità delle persone e per la quasi totalità degli scatti questo non è vero, pertanto l’equazione basata sul valore monetario di una produzione in base alla quale qualcosa che costa niente vale poco è un elemento di sicuro interesse nell’approccio psicologico alla fotografia che qui ho adottato. Con la pellicola si era abituati a ragionare in termini monetari, cioè ogni scatto nuovo costava dei soldi in termini di pellicola, sviluppo e stampa per cui si rifletteva bene prima di scattare, pensando se quella foto fosse davvero importante e necessaria. Ogni foto scattata passava, seppur velocissimamente, attraverso questo “esame di ammissione” proprio perché valeva qualcosa, perchè si investivano dei soldi per realizzarla. Così ogni foto scattata riceveva tutta la nostra attenzione, concentrazione, capacità ed era portatrice, in sintesi, del nostro stile, del nostro sistema fotografico, sia esso amatoriale o professionale. Con la fotografia digitale tutto questo non esiste più, almeno per la massa della popolazione fotografica media.

3.2 Il problema del tempo dedicato

Un problema di primo piano in questo ragionamento è senz’altro da identificare nel “fattore tempo” che noi dedichiamo al singolo scatto, comprendendo in questa unità di misura l’intero il processo che va dalla scoperta di un luogo o di una scena che ci interessa, alla decisione di fotografarla, ai passaggi ottici e tecnici per scattare, allo scatto, all’annotazione eventuale delle indicazioni geografiche. Facciamo un semplice esempio. In una normale vacanza di una settimana trascorsa in una qualunque meta turistica un fotoamatore medio realizzava più o meno una decina di rullini da 36 pose, diciamo tra 250 e 360 scatti, sapendo che ognuno era il frutto di una scelta consapevole e almeno un po’ ragionata. Ora invece, con le macchine digitali, ci capita sempre più spesso di vedere gli stessi viaggiatori, di ritorno da New York o Barcellona, con 1500/2000/2500 scatti che si andranno ad aggiungere nel proprio computer alle migliaia di files già archiviati fino a quel momento in cartelle, sottocartelle, dischi rigidi e anteprime varie. Dunque, se escludiamo che il fotografo abbia passato l’intera giornata a scattare fotografie senza dedicarsi ad altra attività, non ci resta che concludere che tutte o la maggior parte delle foto sono state concepite e realizzate in un tempo decisamente ridotto, compromettendo con ogni probabilità qualcosa in termini di inquadratura, di scelta del punto di vista ecc. per non parlare della reale impossibilità di prendere nota del luogo e del soggetto. Tutte quelle foto avranno perso qualcosa a causa della rapida esecuzione.

3.3 Il problema della quantità di immagini

La riduzione del tempo dedicato al singolo scatto, abbinata alla tentazione di fotografare di tutto, ha avuto l’effetto di diluire in un mare magnum di immagini – spesso raggruppate in serie quasi identiche – i nostri pensieri fotografici migliori e renderli difficilmente rintracciabili durante un’eventuale selezione a posteriori, quando questo avviene. Inoltre, la tendenza sempre più estesa di archiviare tutte queste migliaia di file senza fare quasi mai una sola stampa su carta che non sia domestica e scadente, rende spesso l’archivio dei fotoamatori digitali un binario morto lungo il quale vanno a depositarsi tanti vagoncini carichi di immagini surgelate. Nella migliore delle ipotesi, al corpus di immagini originali viene affiancata un’ulteriore cartellina con la scritta “New York buone”, o “migliori”, o “belle”, contenente qualche decina di immagini. Inoltre, la scelta al computer di quelle immagini ritenute meritevoli di maggiore attenzione, avviene di solito in maniera veloce e  si manifesta spesso come un’azione faticosa in cui può capitare di lasciare fuori scatti buoni e salvarne di sfocati, mossi, scadenti. La scelta degli scatti da salvare e di quelli da condannare all’oblio dovrebbe essere, al contrario, un’operazione dai contenuti tecnici, culturali, artistici da non sottovalutare, e non possiamo pensare di compierla in un’oretta di tempo libero facendo scorrere tantissime piccole icone dentro la cartella o ingrandite un po’ in un’anteprima retro-illuminata. Se non viene svolto con il giusto tempo e la giusta calma, questo meccanismo del “questa sì e questa no” produrrà lunghe file di morti e feriti digitali lungo la nostra strada fotografica. Per selezionare con un senso le foto migliori all’interno di una cartella contenente anche solo 1000 immagini occorrerebbe un’intera giornata di lavoro svolta da una persona già molto formata nel campo della foto-edizione. E questo non corrisponde certo alla realtà della popolazione fotografica media. La scelta frettolosa e principalmente emotiva o addirittura la rinuncia alla scelta genera perciò noia, fastidio, frustrazione, abbandono e negatività verso le attività future che si caricheranno così di costi che non saranno strettamente economici ma andranno sicuramente messi in bilancio.

3.4 Poter vedere le immagini subito dopo lo scatto

Questo sì che è un problema!

Nella strada verso l’acquisizione di una salda disciplina personale in fotografia è evidente quanto possa essere deleterio guardare attraverso il monitor delle macchine digitali un’immagine subito dopo averla scattata. Ciò ci dovrebbe servire a decidere (magari sotto il sole del mezzogiorno) se lo scatto ci soddisfa o meno e, scattare, in caso di risposta negativa, un’altra foto più chiara, più scura e così via. Questa che apparentemente sembrerebbe un’innegabile comodità, comporta invece una quanto mai ovvia perdita della ca­pa­cità, della concentrazione, della produzione del meglio di sé ogni volta che scattiamo: sapere di non poter controllare il risultato della foto scattata ci rende più forti e non più deboli, anche se ci lascia quella sensazione di dubbio sull’effettiva riuscita dell’azione fino al ritiro delle stampe dal laboratorio. Non controllare subito l’immagine arricchisce inoltre la nostra memoria perché i tanti ragionamenti che sviluppiamo prima e durante lo scatto resteranno lì pronti per la verifica del risultato e non scorreranno via come acqua di ruscello.

Attività:  eliminare dalla propria apparecchiatura digitale la possibilità di guardare le foto scattare immediatamente \\ In caso di dubbi, annotare su un taccuino i dati tecnici dello scatto. Questo ci consente anche di riflettere sugli stessi e non usare l’immagine già scattata come campione da migliorare in uno scatto successivo.

  1. 4. La memoria focale e il movimento nello spazio.

In sintesi, potremmo definire la “memoria focale” come la nostra capacità di memorizzare i ragionamenti, le inquadrature, i successi e gli insuccessi delle nostre precedenti riprese, di tutte le nostre precedenti riprese, e di classificarle anche inconsciamente associandole ad un riferimento numerico che rappresenta una lunghezza focale, cioè il nome e cognome dell’obiettivo che abbiamo usato. Questa capacità oggi viene compromessa radicalmente, al punto di rischiare di scomparire. Infatti, parallelamente all’imposizione di apparecchi digitali di fascia medio/bassa sul mercato, si è affermata come scelta non obbligata ma quasi senza scampo la pratica di scattare fotografie attraverso obiettivi zoom del valore ottico modesto e dal prezzo davvero contenuto, forniti unitamente alla fotocamera, riservando a un pubblico molto più ristretto e portatore di reali esigenze professionali o artistiche alcune nuove serie di obiettivi a focale fissa di qualità migliore ma dal prezzo più elevato. Il grande pubblico in questa nuova fase di mercato, ha accolto a braccia aperte l’occasione di portarsi tutto in borsetta senza il fastidio di cambiare obiettivo né di acquistarne più di uno: usciti dal negozio con la nuova camera siamo già in grado di scattare fotografie a piacimento passando da focali grandangolo a medio tele o addirittura a tele spinto. Quella che un tempo era affidata alla scelta del fotografo in termini di focali oggi è a disposizione in un “monoblocco” senza riempirsi una borsa di costosi e pesanti obiettivi.

In questa nuova situazione di offerta che previene e sostituisce la domanda, spesso il fotoamatore medio non ha nemmeno contezza della focale che sta usando (perché i numeri in mm non si leggono dal mirino) e scatta affidandosi a grossolane categorie del “vicino” e “lontano”. Con l’escursione continua della lunghezza focale sotto le nostre dita, il soggetto non viene più immaginato e approcciato nella nostra mente al momento della sua prima visione da parte nostra né avvicinato o allontanato fisicamente mediante lo spostamento del nostro corpo: la scena si forma a partire dal punto in cui ci troviamo. La avviciniamo o la allontaniamo senza muovere un passo né cambiando obiettivo. Pigramente, cerchiamo di ritagliare la realtà senza indagare sul miglior punto di vista. Questa modalità comporta un indebolimento della nostra “memoria focale” che può portare perfino alla sua scomparsa o, per le giovani generazioni, alla sua non-nascita, alla sua mancata formazione.

Per anni ricordo di aver fotografato soltanto con un teleobiettivo da 200 mm perché ero diventato padrone di quel certo modo di guardare il mondo e raccontare le mie storie. Mi sentivo arricchito, non impoverito, da quella scelta che escludeva le altre focali: avevo deciso cosa volevo e cosa non volevo. La mancata coltivazione del proprio “occhio focale” credo, pertanto, che rappresenti una vera e malaugurata perdita nel mondo contemporaneo degli zoom obbligatori, un’occasione in meno che viene data ai neo-fotografi. Per non parlare della perdita in termini ottici che comporta l’uso di tante lenti (ora anche di bassa qualità) da portarsi dietro e utilizzare anche quando non servono. Ma di questo appunto non parliamo.

Attività: Esercizi di inquadratura senza macchina fotografica, attraverso cartoncini neri a forma di finestra rettangolare che si possa allargare e stringere \\ Esercizi di inquadratura con diverse ottiche per comprenderne le differenze \\ Esercizi di immaginazione su scene mai viste prima per proporre inquadrature differenti in base a presunte ottiche differenti.

  1. 5. Lo scatto singolo e la disciplina in fotografia.

Questo specifico corso di formazione si basa sulla mia “filosofia” di ripresa fotografica che definirei per brevità “dello scatto singolo”. Per arrivare a questo risultato saranno tracciati alcuni tipi di atteggiamento quali, ad esempio, lo studio attento della scena prima dello scatto, anche lungamente; la ricerca del nostro migliore punto di vista; la sintonia con la nostra traccia di racconto; il calcolo della giusta esposizione; il migliore taglio di inquadratura; l’originalità rispetto alle precedenti immagini e così via. In altri termini: sarà nostro intendimento scattare per ogni scena un’unica foto che contenga tutte le nostre idee su di essa ed affidarle tutto il nostro racconto. Scattare una nuova foto allo stesso soggetto sarà necessario soltanto se il cambio di inquadratura ne determinerà realmente una nuova valorizzazione. Sono queste solo alcune delle modalità di pensiero che, a seguito di quanto già detto fin qui, contribuiscono a formare la nostra disciplina fotografica e potenziare la nostra creatività e la nostra capacità narrativa.

In questo discorso studieremo ancora l’equilibrio interno all’inquadratura che dovrà essere stabilito prima dello scatto e mai affidato a successive rielaborazioni in post-produzione le quali avverrebbero quando ormai saremo lontani dalla scena e non potremo più integrarla con eventuali parti eliminate. Quando saremo andati via non sentiremo più i suoni o il silenzio della scena, non percepiremo più i volumi e le masse architettoniche, non potremo più guardarci intorno alla ricerca di quel particolare omesso.

Per rafforzare questa tecnica dello scatto singolo occorrerà fami­liarizzare con il nostro mirino prima di scattare e guardare in esso tenendo presente i quattro bordi neri che lo delimitano come fossero la vera cornice di un quadro alla parete contenente fin da quel momento la nostra fotografia d’autore.

Attività: Esercizi sulla corretta determinazione della distanza fisica e ottica dal soggetto \\ Esercizi sulla determinazione della corretta altezza di ripresa \\ Esercizi sull’angolo prospettico, cioè della prospettiva dalla quale stiamo scattando.

  1. 6. La luce e l’atmosfera del nostro quadro.

Si fa presto a dire che la fotografia è la scrittura della luce o “con” la luce. Ma di quale luce stiamo parlando e quale proprietà della luce vogliamo utilizzare? Obiettivo di questo corso sarà proprio lo studio della luce in quanto elemento determinante nella definizione dell’atmosfera del nostro quadro, elemento che potrà esaltare – relativamente alla nostra capacità di sentirla e osservarla –  o deprimerà il soggetto che abbiamo deciso di riprendere. La luce alta o bassa, forte o diffusa, il controluce, la luce radente, possono trasformare radicalmente il nostro racconto ed imprimergli un sapore condivisibile senza sforzi né necessità di spiegazioni.

La luce incide il soggetto sulla pellicola lasciando al suo opposto, l’ombra, il compito di descriverne i volumi e i pesi. Rende il soggetto infuocato o dolce, cambiandone radicalmente il campo di appartenenza, passando dall’abbacinante illuminazione mediterranea, ad esempio, che ci rimanda a un mondo metafisico dal quale noi siamo quasi esclusi, alle luci calde e intime che ci rassicurano con un’atmosfera a noi più vicina e confortevole, capace di ospitare un certo tipo di poesia delle piccole cose o del silenzio carico di sospensione, di voglia di appartenenza. E nell’intervallo esistente tra queste due opposte polarità troviamo luci di tutti i tipi e temperature, adatte al più svariato campionario di racconti e rappresentazioni: l’importante è saperle scegliere per il nostro quadro, oppure saperle “addomesticare” nel caso in cui davanti al nostro soggetto ci troviamo proprio in un determinato momento, e solo in quello e dobbiamo magnificarlo comunque perché ci è utile nella nostra storia. Allora gireremo intorno alla scena alla ricerca della migliore illuminazione possibile, ci abbasseremo, ci solleveremo cercando l’angolo più adatto per catturare il riflesso sulle superfici. Nulla deve essere lasciato al caso, nemmeno nello studio della luce. E come potrebbe essere diversamente! Una volta in sintonia con la luce, dovremo scegliere quei pochi elementi di tecnica capaci di tradurre una porzione di scena reale in una fotografia.

Conosceremo, perciò, benissimo la nostra macchina fotografica e, soprattutto, il funzionamento del suo esposimetro per essere certi delle sue modalità di misurazione della luce riflessa dalla scena. Ciò sarà fatto con l’intervento del tutor anche per abbraviare i tempi.

Davanti alle proposte di misurazione della luce offerteci dal nostro esposimetro, spesso dovremo scegliere se cambiare ancora qualcosa, se far aumentare o diminuire (sovresporre o sottoesporre) la luce che passerà dall’obiettivo in modo da drammatizzare, saturare, sbiancare, la scena stessa per imporre la nostra cifra stilistica. E, come in una miscela magica, saremo sempre sorpresi nel vedere come una magnifica realtà stesse lì ad aspettarci! Pazientemente.

Attività: Studio di diverse riprese cambiando esposizione e posizione rispetto alla luce

  1. 7. Il fuoco e il non fuoco. Il mosso e il fermo.

Una delle caratteristiche più ovvie della fotografia è la possibilità di registrare grazie alla luce un particolare di una scena reale trasformandola però in qualcosa di molto diverso da quello che l’occhio umano è comunemente capace e abituato a percepire: una cosa nuova! Possiamo, per essere più precisi, vedere contemporaneamente delle parti della scena bel leggibili, nitide, a fuoco – appunto – e altre sfuocate, evidenziandole meglio di quanto farebbe l’occhio nudo che è costretto a concentrarsi su un particolare ed escludere il resto, lasciandolo in una condizione di sfondo, di contorno. Quello sfondo potrà immediatamente essere messo a fuoco, inquadrato, dall’occhio e diventare protagonista. Tutto questo in fotografia non avviene secondo questa tempistica, tutto è già lì con i suoi gradi gerarchici da noi determinati ricevendo l’esaltazione della messa a fuoco o relegato alla sfocatura. La fotografia ci offre, con la tecnica della messa a fuoco e con la sua conseguente “non messa a fuoco” di guardare contemporaneamente ciò che è nitido e ciò che non lo è. Ciò è fondamentale nell’esaltazione dei protagonisti della scena e del ritmo della narrazione, ma anche nell’immaginazioni di nuove relazioni personali che possono apparirci all’improvviso utilizzando appunto questa meravigliosa metafora dell’immagine.

La stessa sensazione di “mai visto” ci viene offerta variando i tempi di scatto in base ai quali possiamo vedere ferma qualcosa che nella realtà conosciamo come sempre in movimento (come una bandiera al vento) oppure possiamo vedere la scia generata dal soggetto che si muove sulla scena creando effetti che l’occhio non percepisce.

Attività: Lavoro sulla messa a fuoco \\ Lavoro sul fermo e sul mosso con i vari tempi di scatto.

  1. 8. Raccontare storie, comunicare emozioni.

In un mondo contemporaneo in cui i grandi mezzi di comunicazione di massa ci presentano un panorama fotografico fatto soprattutto di fotografia giornalistica, diciamo fotoreportage, sembrerebbe che l’unico uso degno di questo strumento sia la ripresa dei “fatti”, della cronaca, meglio se scioccante, cruda, sanguinaria. Addirittura questa pratica fotografica si sta imponendo anche nei circuiti artistici dove normalmente dovrebbero trovare spazio ricerche basate anche sulla realtà ma non composte solo di fatti, personaggi e luoghi periodicamente sotto i riflettori. Il tema contemporaneo, attuale, ha pieno diritto, ovviamente, di muovere l’immaginazione del fotografo e determinarne i propri sforzi ma la ricerca artistica o d’autore dovrebbe nutrirsi anche di studi sulla rappresentazione artistica in senso stretto, discendente dalla nostra formazione culturale alla percezione ormai millenaria dell’arte.

Davanti all’esplosione dell’arte contemporanea ci siamo ormai assuefatti all’imperativo “che tutto è arte” e forse non ce ne dobbiamo nemmeno preoccupare troppo: i fenomeni sono ormai così globalizzati che non possiamo più incidere nemmeno minimamente sulla loro evoluzione.

Allora lasciamo agli specialisti la questione e rimettiamo mano alle vecchie categorie della poesia, delle emozioni, della narrazione intima e cerchiamo i nostri percorsi lontano dall’ossessione di fotografare fatti e personaggi celebri.

La narrazione di cui mi vorrei occupare è quella che si svolge per simboli, allegorie, per rimandi di pensiero a fatti anch’essi reali, ma non trattati in maniera didascalica. Anzi, proprio dal racconto della contemporaneità, dobbiamo essere agitati dentro e fuori ma dobbiamo aspirare ad un percorso meno immediato, forse, ma più lirico in quanto animato da una piacevole sospensione tra la comprensione immediata del tema da parte dell’osservatore e la sua trasposizione in opera fotografica. In questo sforzo dovranno naturalmente soccorrerci le pagine storiche dell’arte fatte di equilibri cromatici (anche non convenzionali) composizioni “accoglienti” pur nella loro modernità, inquadrature rigorose, piacevolezza estetica, ma non dovrà travolgerci la tentazione di produrre estetismo fine a se stesso. Questo non incontra il mio interesse, non commuove né piacevolmente né dolorosamente che guarderà l’opera.

  1. 9. Concetti, astrazione, linguaggi.

Il corso si pone l’obiettivo di presentare ai partecipanti le potenzialità del mezzo fotografico e della riflessione sulla creazione dell’immagine. NON è necessario che tutti i partecipanti siano fotografi/e esperti/e e, addirittura, potrebbe rivelarsi estremamente produttivo anche un corso seguito senza l’apparecchio fotografico, utilizzando la fotocamera insieme al formatore. La realizzazione o meno di veri scatti fotografici sarà una piacevole, ma non indispensabile, opportunità.

Nel corso, per favorire la veicolazione di concetti utilizzabili in altri campi, quale quello aziendale appunto, si farà largo impiego di categorie ideali di riferimento quali la fotografia di concetto, attraverso la quale si trasformerà un semplice oggetto quotidiano o una parte di scena esterna in una metafora significativa di un concetto che il gruppo ritiene interessante condividere: la solitudine, l’equilibrio, l’uno e gli altri, la rottura, la crisi, il successo, la negazione, il nascondimento, la vicinanza, la solidarietà, il dolore, la forza del gruppo, la limpidezza, la mancanza di chiarezza, l’identificazione, il peso, la leggerezza, la dolcezza, l’invasione, il silenzio, il caos. Ma anche l’astrazione come quadro in cui da una forma concreta si passerà a una visione senza forme riconosciute, entrando nel territorio del pensiero libero e dell’immaginazione galoppante, per finire al linguaggi narrativi e comunicativi dell’immagine in bianco e nero e di quella a colori, in tutte (o quasi) le loro possibili declinazioni.


Organizzazione generale

1) Svolgere il corso fuori dall’ambiente di lavoro usuale.

2) Un corso di formazione in questa formula del workshop d’autore dovrebbe prevede almeno due giorni interi trascorsi insieme (con o senza pernottamento fuori sede), con full immersion del gruppo con il formatore.

3) Gruppo composto da 8 componenti al massimo.

4) Possibilità di inserire nello stesso gruppo anche persone con livelli diversi di abilità fotografica. La guida sarà comunque personalizzata.

5) Consigliabile che tutti i componenti abbiano la propria macchina fotografica, di qualunque tipo essa sia, purché abitualmente utilizzata e funzionante, ma può essere seguito il corso con sicuri benefici anche senza possedere una machina fotografica e utilizzando le riflessioni comuni e l’apparecchio insieme al formatore.

6) Previsto anche un lavoro di gruppo sulle immagini storiche del formatore.

Formatore

Ico Gasparri (1959)

Cava de’ Tirreni – Napoli

cell. 339/7612658

ico.gasparri@ichome.itwww.icogasparri.netwww.ichome.it

PS. Ico Gasparri ha cominciato a scattare fotografie come strumento narrativo nel 1978, ha una formazione universitaria di storia dell’arte e archeologia e ha lavorato dal 1992 al 2007 come dipendente delle principali aziende editoriali italiane, rivestendo varie mansioni fino a rivestire il ruolo di quadro e responsabile editoriale della produzione. Nel 2007 è ritornato ad occuparsi di fotografia a tempo pieno. Ha all’attivo circa 90 tra esposizioni personali, collettive e spettacoli.

 

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