quel che resta del mare

Quel che resta del mare.
Ico Gasparri

Marzamemi, Portopalo, Pozzallo. E Pachino. Forse per capire il perché di tanti disgraziati viaggi di mare alla ricerca della salvezza bisogna attraversare la piana a ridosso della costa dell’estrema Sicilia sud-orientale e perdersi nel mare di plastica che ricopre la campagna di Pachino. Nel controluce del pomeriggio, ettari, ettari ed ettari di serre disposte con regolarità degna della migliore pianificazione fanno concorrenza al mare vero, simili per brillantezza e riflessi allucinanti. Ma il mare, quello vero, ha un altro sapore e un altro profumo. Si muove e porta uomini, donne e bambini in cerca di qualcosa che non conoscono. Come si potrebbero coltivare queste immense stufe per ortaggi fuori stagione senza braccia disposte a tutto pur di non crepare di fame. Non di vigne e olivi si tratta, perché il padrone non ti lascia legare le vigne come fa con i pomodori. Solo zucche, zucchine, finocchi, carciofi, pomodorini dal nome allegro: ciliegini. Una vera ciliegina sulla torta, per quelli che vanno a fare la sauna lì dentro per raccoglierli. Si tratta di una campagna tecnicamente facile che gira tutto l’anno senza bisogno di esperienza millenaria. Ci vogliono soltanto migliaia di braccia per strappare le insalatine veloci e portarle sulle tavole del nord. Già. Braccia, perché le serre sono lunghe, basse e strette e non se ne parla di farci entrare i trattori e i mezzi meccanici. Tutto a mano, nella migliore tradizione artigianale italiana, con un sindacato coraggioso e generoso che difende i lavoratori regolari senza abbandonare quelli fantasma.

E, poco più avanti, Pozzallo, un porto davvero moderno e lindo dove una flottiglia surreale è stata tirata in secco pezzo dopo pezzo e messa in un angolo, in attesa dell’ordinanza di demolizione del giudice.

Sono barche colorate e dignitose, quasi allegre, queste barche-che-sono-venuto-fin-qui-per-fotografare. Adagiate tutte su un lato senza l’onore di paranchi che le tengano sollevate in posizione orizzontale come ho visto a Portopalo. L’immagine ricorda quella di balene o di grandi animali adagiati su un fianco in attesa di morire, o di trottole colorate che hanno smesso di girare per sempre. Alcune sono qui da sei mesi, un anno, altre da tre o dieci anni. Ma presto saranno demolite mi informa il nostromo della Guardia Costiera.

Sui ponti non riesco a salire perché sono troppo ripidi, allora li fotografo da sotto. Per legge di natura e qualche fugace temporale di quaggiù gli “effetti personali” lasciati a bordo sono lentamente scivolati verso il basso, mescolandosi e fondendosi gli uni agli altri nella pioggia e nel sole. Tutto è di traverso. Tante le scarpe. Da uomo, da donna, a volte coi tacchi alti, scarpe da ginnastica di marche improbabili, ciabatte, saldali, quasi tutti tristemente spaiati. Solo in un caso un uomo aveva legato insieme le sue due scarpe durante il viaggio, sperando così di non perderle nella folla. Duecento, duecentocinquanta a volte trecento persone stipate al di là della promiscuità più fantasiosa sopra ponti lunghi non più di quindici metri. Alcuni sicuramente dentro quelle stive trappolone che vedono l’aria per boccaporto che avrebbero fatto gola a dante nei girone dei disgraziati.

Ora svettano nel deserto a bordo solo le cabine dei comandanti in cui penzolano fili strappati e interruttori d’epoca. A volte, non sempre, riconosco la toilette, un vano di 60×60 centimetri collegato al mare da un tubo che passa sotto le tavole del ponte o sopra, per scaricare fuori bordo. Immaginando la quantità di persone, il diametro ridotto dello scarico e la scarsità d’acqua non deve aver funzionato per molto.

Le scarpe da bambino sono poche. Non so perché. Cerco di immaginare i motivi, ma so che sarei lontano dalla comprensione. E poi mutande da donna in pizzo economico bianche, rosse, nere, slip da uomo bianche a costine vecchia maniera, niente nomi celebri sul culo; qualcosa che ricorda un materasso, un rudere di frigorifero, stracci informi, giubbotti e pezzi di tute con le tre strisce come alle olimpiadi, tante lattine di vernice dall’uso incerto, ma numerose, cime rattoppate e policrome, piatti arrugginiti, bottiglie d’acqua che parlano arabo, qualche cartone di latte, tubetti di crema solare. Un solo salvagente, alcune camere d’aria. Su alcune di queste barche restano brandelli di teli sistemati per proteggere i migranti dal sole dei due o tre giorni di navigazione prima di essere intercettati dalla guardia costiera e portati a terra, destinazione CPT.

Tutto è molto diverso dall’idea che mi ero fatto dalla televisione. I colori brillano al sole, manca l’effetto ferraglia arrugginita. I colori sono vivaci e teneramente nostrani: azzurro, verde, bianco, rosso, giallo. Le fiancate sono spesso decorate con grandi occhi “portafortuna”, scritte in arabo, numeri (pure loro arabi, perciò li capisco!) che sembrano indicare recapiti telefonici. I nomi delle barche mancano o sono stati cancellati con colpi di pennello alla buona.

Non si vedono ancore, né eliche, né strumenti di bordo, spesso trafugati dopo il sequestro. I motori sono vecchi ma funzionanti, in qualche caso addirittura nuovi, ce n’è uno nuovissimo che è la favola degli uomini dei pescherecci intorno. Rubarli sarebbe troppo complicato per cui restano nelle stive buie e impenetrabili all’occhio anche nelle giornate di sole cocente. Andranno demoliti come il resto per evitare il traffico illegale, oppure regalati alle organizzazioni umanitarie.

C’è un silenzio irreale nel fortissimo scirocco che fa dondolare le poche cose mobili. Provo a farmi dei calcoli a mente. Penso a tutti i 280 allievi della scuola elementare di mia figlia, messi su una di quelle barche: è impossibile. Non ci starebbero nemmeno lasciandoli della loro taglia infantile! A tratti, dopo quattro ore che fotografo, mi sembra di sentire le voci, di vedere ombre, di immaginare i malori e le difficili manovre con quella massa imponente sistemata a bordo. No. Non ho le allucinazioni, registro le voci che provengono da tutto quello che sto vedendo. Sono uomini e donne che non conoscerò mai che raccontano la loro vita attraverso quelle poche cose abbandonate.

Incastrate tra le barche più grandi – che sono state intercettate a largo e rimorchiate fin qui ­– giacciono alcune lance più piccole, in vetroresina, tipo quelle che si vedono sui traghetti come scialuppe di salvataggio. Sono tutte grigie, senza scalmi per i remi. Senza il tappo per lo scarico dell’acqua di sentina, sono ridotte a vasche putride di acqua stagnante in cui i sandali di gomma vengono a galla insieme a bottiglie arabe che galleggiano e ballano con lo scirocco una danza macabra davanti al mio obiettivo. Su alcune di queste imbarcazioni più piccole c’è la scritta “LIFE”. Portavano “soltanto” 25-30 persone, arrivate fino a terra da sole. Spiaggiano lungo la costa come grossi delfini e scappano nelle campagne. Appunto.

I motori, anche qui sono sequestrati e dati alle ong. Le taniche di benzina vuote sono state abbandonate in mare. Nell’ammasso c’è anche un gommone completamente sgonfio che si è spiaccicato sul pavimento del porto come il vestito di un fantasma scappato. Anche qui resta qualcosa: un calzino un cappellino di lana e una scarpa.

Gommoni non ce ne sono altri qui: ne ho fotografati a Marzamemi. Ne ho trovati quattro arrivati da non molto, sgonfi anch’essi, messi uno sull’altro, partendo dal basso, da quello più largo a quello più piccolo. Forse nello stesso ordine delle 200 persone che trasportavano! Qui le condizioni di viaggio non mi riescono immaginabili.

Cerco di ridare a tutta questa materia una dignità attraverso la fotografia. Cerco di dare risalto alle bitte di legno tagliate a mano con l’ascia, penso ai maestri del mio golfo di Napoli che hanno imparato nei secoli gli stessi gesti e li hanno trasmessi a quelli che navigavano e costruivano dopo di loro. Fotografo lentamente, con il cavalletto per non fare troppo di fretta e cercare di capire di più le storie di quelle prue slanciate, delle fiancate decorate, degli espedienti per tenere insieme due cime arrivate a fine corsa, ai ponti splendidi nella loro pulizia sotto il sole cocente della Sicilia di sotto.

Tra poco questo teatro senza vita verrà demolito, non esisterà più. Queste nobili eppure miserabili storie di mare andranno cancellate e dimenticate. Resterà solo il forte odore di acqua e sale te ti bagna i capelli nello scirocco. Più niente.

Ico Gasparri
ico.gasparri@ichome.it

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